La stazione

Prima di scrivere è importante capire il mondo che ci circonda e per farlo bisogna guardarlo con le lenti giuste.

Io, che vivo in città, se fossi cieco, come il protagonista di Cattedrale, il famoso racconto di Carver, e dovessi immaginare di disegnare una città, inizierei dalla stazione.

Anche le città senza mare hanno il loro porto: la stazione dei treni,  porta di accesso per chi arriva da lontano e corridoio di passaggio per i pendolari diretti al lavoro.

Se potessimo osservare una stazione dall’alto , vedremo un flusso continuo di persone attraversarla. Ogni giorno una piccola città passa attraverso le grandi stazioni. Buffo no? ma forse vuol solo dire che siamo fondamentalmente dei nomadi e costruiamo il nostro modello di vita sugli spostamenti.

Le stazioni sono anche il primo luogo in cui si mostrano, evidentissime, le differenze sociali. Sono un luogo di snodo in tutti i sensi e perciò amate dagli scrittori. E allora come appaiono le stazioni nei romanzi?

Ecco un esempio, tratto da Storia del nuovo cognome in cui Elena Ferrante descrive con occhio clinico il forte contrasto tra la folla di emarginati che abita la stazione Centrale (n.d.r. Napoli ovviamente)  e i protagonisti benestanti di passaggio.

Attraversammo la grande galleria della stazione Centrale affollata di venditori ambulanti, mendicanti, borseggiatori. Persone che dormivano distese a terra, coperte di stracci. Il viavai era febbrile, ci urtavano, rischiavamo di cadere. Mi strinsi a Nino, cercai di non guardarmi intorno. Lui invece osservava tutto con occhi lucidi, notava ogni dettaglio, dalle scritte oscene sui muri ai cartoni sporchi usati come giaciglio. Io volevo solo uscire al più presto da quel tunnel di miseria, Nino sembrava volerne assorbire il senso più profondo.

Le diverse reazioni dei personaggi alle miserie che li circondano mettono in luce la separazione tra classi sociali che convivono negli spazi urbani. Elena Ferrante riesce a far emergere questa disparità con pochi tratti netti e incisivi.

Più vicino ai nostri tempi, almeno come ambientazione letteraria, ecco come Don DeLillo descrive una scena ambientata a Grand Central (n.d.r. New York ovviamente) nel romanzo Cosmopolis.  Qui l’accento è sul senso di straniamento e smarrimento in un luogo frenetico e per questo così anonimo.

Attraversai il grande atrio della stazione Grand Central, inseguito dai miei passi rimbombanti sul marmo. Una marea umana mi circondava, ondate di corpi si scontravano, un brusio fioco e lontano. Cercai un volto familiare tra migliaia di estranei. Avrei voluto chiedere informazioni ma non sapevo cosa. La folla mi trascinava come un fuscello nella corrente. Scrutai il tabellone delle partenze: una litania incomprensibile. Quando ritrovai l’uscita mi sentii come risputato fuori dal ventre di un mostro indifferente.

Confrontatelo con questo brano di Dos Passos tratto da 42-esimo parallelo (stiamo parlando della stessa stazione, la Grand Central Station di New York, of course):

Si infilò nella Grand Central Station e si fermò; la volta scintillante era un cielo capovolto trapunto di stelle. Corse su per una scala mobile schiacciato tra una folla silenziosa che saliva lentamente verso le costellazioni. Gli altoparlanti gracchiavano numeri, nomi, chiamate senza fine. Un automa con voce cavernosa tuonava Believe, Believe, Believe. Camminò senza meta tra binari, scale mobili, androni sotterranei in un intrico di cunicoli abbaglianti che non portavano da nessuna parte. La ressa indifferente lo sovrastava. Avrebbe voluto gridare per sentirsi ancora vivo.

Lo stesso senso di solitudine e straniamento, costante dei romanzi americani.

Ma torniamo alle stazioni italiane. C’è un brano de La coscienza di Zeno di Italo Svevo in cui viene descritta splendidamente la sala d’attesa della stazione di Milano:

Nella grande sala d’aspetto vi è un va e vieni continuo. Gente che aspetta il momento della partenza al calduccio della stanza comune. Arrivi continui di gente affannata che deve mettersi in coda allo sportello del biglietto.

Un via vai di facchini coi carrelli carichi di valige. Signorine viaggiatrici che vengono domesticamente a prendere il tè al buffet. Impiegati di commercio che colla valigetta in mano e il cappello sul cocuzzolo della testa si avviano a prendere il treno senza neppur guardare l’orologio con fiducia cieca nella precisione ferroviaria.

Vedo una mamma aspettare con due bimbi. Li tiene per mano e ogni tanto li eccita a star buoni. Deve aspettare chi la conduca al treno.

Ogni viaggiatore, più o meno occasionale, sa cosa significhi aspettare un treno o una coincidenza in una stazione: si sta in piedi davanti ai tabelloni delle partenze bombardati dalle immagini pubblicitarie che scorrono di continuo su una serie infinita di monitor.

E le sale d’attesa? C’era una volta una stazione e la sua sala d’attesa. La sala d’attesa era quel luogo in cui mondi diversi venivano in contatto. Oggi le sale d’attesa non ci sono più, o meglio, sono state privatizzate. Nelle grandi stazioni, sono state sostituite dalle salette vip che le singole compagnie mettono a disposizione dei viaggiatori forti. Un sistema esclusivo a cui i viaggiatori con un biglietto normale non possono accedere.  

E così da luogo di incontro pubblico, le stazioni si sono trasformate in luoghi di passaggio o di consumo,  sempre più simili agli aeroporti.

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